Claude Piron

Aspetti psicologici del problema linguistico mondiale e dell'esperanto


(Conferenza presentata da Claude Piron a Basilea durante il Trilanda Renkontigho il 21 di marzo 1998)


L'incomprensione della società
L'identificazione alla lingua internazionale
Due categorie
Un paradosso: dov'è la sanità mentale?
L'esistere di una resistenza conferma la diagnosi
Tabú
In cosa si radica il tabú?
Un messaggio autoritario occulto
Un mostro
I fatti sono piú ostinati dei discorsi


Si può affrontare il problema linguistico mondiale su prospettive molto diverse, per esempio politica, linguistica, finanziario-economica, etc. Seguirò, probabilmente per deformazione professionale, la prospettiva psicologica la cui importanza a mio parere non è tenuta in giusta considerazione.


Molti esperantisti spesso si lamentano che il mondo non capisce la loro prospettiva, che non mostra interesse, o che la causa non progredisce abbastanza rapidamente. È facile che si accusino l'uno con l'altro. Secondo me, questi sentimenti negativi sono assolutamente inverificabili, se si considera l'aspetto psicologico della situazione. In altri termini, secondo me, l'esperanto progredisce del tutto naturalmente, perfino quando regredisce per un decennio, e anche la presa di coscienza del problema linguistico mondiale procede a un ritmo normale - il ritmo della storia.


L'idea degli esperantisti che la causa non progredisce abbastanza rapidamente scaturisce da una delle parti piú importanti della psiche umana, vale a dire il desiderio. Desideriamo che l'esperanto progredisca e reagiamo a tale desiderio come bambini piccoli: non vogliamo vedere l'ampiezza degli ostacoli, che si ergono come una barriera tra il nostro desiderio e la sua soddisfazione. Perciò ci sentiamo frustrati. E quindi, anziché accettare il dato di fatto con realismo - che ci è mancato fin dal principio - e cioè che gli ostacoli sono pronti ad aspettarci, in agguato, cerchiamo colpevoli all'esterno: saranno nell'altro mondo, che non ci presta attenzione, o saranno i pasticcioni nel mondo dell'esperanto, che non agiscono con efficienza e verso lo scopo. Tutto ciò è infantile. Con questo non sto esprimendo una critica, sottolineo solo uno dei normali funzionamenti della psiche umana: quando compare un desiderio forte, tendiamo a reagire in maniera infantile. Perdere la pazienza per il progresso dell'esperanto, cercare colpevoli, sono reazioni del tutto normali e naturali. Nella maggioranza dei campi persone del tutto cresciute reagiscono proprio in questo modo. In effetti tutti noi siamo maturi solo in alcuni aspetti della vita. In molte sfere, come la politica, la metafisica, e le relazioni umane, continuiamo a reagire come bambini piccoli.


L'incomprensione della società


Ho detto or ora che il mondo non ci capisce. Ecco un aspetto psicologico della situazione.


Perché il mondo non ci capisce? Perché in generale la società non capisce la situazione linguistica. Perché? Per molte ragioni. Per esempio, perché il rapporto che abbiamo con le lingue è molto complesso, e non è facile capire qualcosa di complesso. Quando qualcosa è molto complesso, tendiamo per natura a semplificare. Di conseguenza, la società in generale ha un'immagine altamente semplificata della situazione delle lingue nel mondo. Un'immagine molto schematica.


Un'altra motivazione psicologica per cui la società non capisce il problema linguistico è la paura. Forse questo può destare meraviglia. E in effetti, se dite a un politico, o a un linguista, o a un qualunque uomo che incontrate per strada, che una delle ragioni per cui il mondo non risolve il problema linguistico è la paura, lui o lei vi guarderanno come foste ammattiti. Di solito per l'ascoltatore il problema linguistico semplicemente non esiste. "L'inglese lo risolverà, o i traduttori". E in secondo luogo, se davvero ci fosse un simile problema, è chiaro che non ha nulla a che fare con la paura. "Cos'è questa pazzia?" vi diranno.


Eppure molte paure sono inconsce. Non le sentiamo, ed è cosa buona, altrimenti non sarebbe possibile vivere gradevolmente. Resta il fatto che quelle paure causano molti aggrovigliati pasticci, errori di rotta nel nostro modo di capire il reale.


Perché la lingua suscita timore? Di nuovo, per molte ragioni. Per esempio, la lingua è intimamente legata alla nostra identità. Un giorno da ragazzini veniamo a sapere che il nostro ambiente parla quella o quell'altra lingua, e che questo ci definisce in relazione al resto del mondo. Io appartengo a un gruppo umano che si definisce per mezzo della lingua che parla. Cosí, nel profondo della mia psiche, la mia lingua sono io. Il vasto uso dei dialetti svizzero-tedeschi è un modo per dire: ecco chi siamo, noi non siamo tedeschi. Oppure pensate a come reagiscono i fiamminghi o i catalani: "chi perseguita o critica la mia lingua, perseguita o critica me."


Molte persone hanno una reazione di repulsione davanti all'esperanto perché la percepiscono come una lingua senza una gens, una etnia definita, e perciò una lingua dall'identità inumana, e quindi o una non-lingua, o una lingua che è piu´ reificata che umana, una lingua che sta alle vere lingue come un robot sta ai veri esseri umani. E questo fa paura. La paura che quel robot di cui si sente dire che ambisce all'universalità calpesti qualsiasi altra lingua, ogni popolo, qualsiasi cosa che viva e che abbia un'individualità, che distrugga ogni cosa al suo passaggio. Forse può sembrare fantasioso. Ma è la verità. Il metodo psicologico detto dialogo clinico cerca le associazioni di idee o di immagini: orbene, se si chiede a una persona di dire cosa passa per la mente partendo da una parola definita, in questo caso "esperanto", affiora proprio questo timore inconscio in tante ma tantissime perso ne.


L'identificazione alla lingua internazionale


Uno dei problemi degli esperantisti viene da questo, che l'esperanto ha un tratto che lo distingue da qualsiasi altra lingua straniera, e cioè che favorisce l'identificarsi ad essa. Uno svedese che comunica in inglese con un coreano e un brasiliano si sente solo uno svedese che usa l'inglese, non si sente un anglofono. Al contrario, uno svedese che comunica in esperanto con un coreano e un brasiliano si sente un esperantista e sente che anche gli altri due sono esperantisti e che i tre appartengono a una speciale sfera culturale. Perfino se si ha un'ottima competenza d'inglese, un non anglofono non sente che questo gli fa avere un'identità anglosassone. Con l'esperanto accade il contrario. Perché?


Come al solito nel campo che stiamo esplorando oggi i fattori in gioco sono molteplici e complessi, ma forse il piú importante è che l'esperanto si integra nella psiche umana a un livello piú profondo rispetto a qualsiasi altra lingua. Non subito, non tra principianti, ma presso coloro che Janton chiama "esperantisti maturi", persone con un'esperienza linguistica sufficiente per potersi sentire a casa propria con tale lingua. Perché si instaura più in profonditaà nella psiche? Perché, piú di qualsiasi altra lingua umana, questa lingua segue le movenze naturali del cervello in una persona che vuole esprimersi.


La nostra tendenza piú basilare quando impariamo una lingua è generalizzare i tratti linguistici che abbiamo appreso. Per questo motivo tutti i bambini italofoni dicono "gli uovi", "ovoj", anziché "le uova", o "io ando", "mi iras", anziché "io vado". Per questo motivo tutti i bambini anglofoni esprimono il concetto "piedi" con "foots" anzicé con la forma giusta "feet", o il concetto "è venuto" con "he comed" anziché con la forma giusta "he came". In esperanto simili errori non sono possibili, cosí uno si sente presto sicuro nell'uso della lingua. Inoltre, in esperanto si è molto piú liberi che in altre lingue, vale a dire si possono mettere in relazione le parole l'una con l'altra molto liberamente. In inglese devi dire, letteralmente, "lui aiuta me", in francese "lui mi aiuta", in tedesco "lui aiuta a me". In queste tre lingue esiste una sola struttura obbligatoria, una sola. In esperanto potete scegliere liberamente una qualsiasi delle tre. Analogamente per la scelta della funzione delle parole nella frase. Potete frequentemente scegliere una qualsiasi tra le funzioni aggettivale, avverbial e, verbale e sostantivale, per esempio dire: "mi venis trajne (sono venuto 'trenamente'), mi venis per trajno (sono venuto mediante il treno), mi trajnis (ho 'trenato')". Non ci sono obblighi in questo senso. Pochissime lingue hanno a disposizione i rimedi che permettono una simile libertà, e se ce l'hanno, molto spesso non si ha il permesso di usarli. Inoltre, l'ambiente esperantistico è molto tollerante riguardo gli intoppi grammaticali e lessicali, a un livello mai incontrato in altre lingue. Dimenticare l'accusativo o usarlo approssimativamente nella pratica è considerato un fenomento normale, probabilmente perché la comprensione non ne viene quasi mai ostacolata. Solo certi pedanti ne fanno un dramma, ma questi si situano fuori dal normale ambiente esperantista (Attenzione! Non fraintendete questo rilievo sugli errori di lingua come una raccomandazione! In questo frangente mi trovo su un terreno di pura os servazione). In altre parole, non c'è relazione tra la perfezione nel suo uso e il senso di identificazione alla lingua. Ci si può sentire esperantisti anche se ci si dimentica sempre l'accusativo.


Tutto ciò, e anche la possibilità di creare parole a piacere, cosa che non è permessa in molte lingue, crea un'atmosfera di libertà che pone la lingua a un livello piú profondo della psiche, piú vicino al nucleo, alla sua base istintuale. È piú facile essere spontanei in esperanto che in francese, per esempio, perché bisogna osservare molti meno divieti arbitrari. In questo ci si sente piú facilmente se stessi. Ma le persone che non appartengono al mondo dell'esperanto questo non lo possono capire. Non possono capire l'identificarsi, e perciò l'atteggiamento di molti esperantisti gli sembra fuori di testa o almeno molto strano. Per quel motivo di identità con la lingua un esperantista si sente facilmente attaccato quando si critica la lingua, o perfino l'idea stessa di una lingua internazionale. Attaccare la lingua significa attaccare lui stesso, e la reazione naturale è contrattaccare, a volte in maniera acre. Ma questo un non-esperantista non lo comprende. Perciò vede nella reazione normale di un esperantista qualcosa di troppo intenso, di troppo forte, la prova di un qualche fanatismo, che è il solo modo di spiegare una reazione cosí sproporzionata.


Due categorie


A mio parere, psicologicamente gli esperantisti appartengono a due categorie. Da un lato ci sono persone che non si adattano bene alla vita della collettività, che si sentono un poco fuori dai flussi della moda, dalla società, dalle idee correnti e dai modelli di comportamento. Persone che si sono abituate al fatto di essere dissimili dalla maggioranza o che si sentono esclusi, ora o in passato, dalla maggioranza. Non è facile prendere su di sé la profonda solitudine della vita umana. Perciò le persone che si sentono dissimili dalla maggioranza tendono a riunirsi, a creare una comunità in cui sentirsi bene. Allora vanno a convegno e si ripetono l'uno all'altro quanto hanno ragione loro e quanto ha torto il mondo esterno. Ciò è del tutto normale e umano. L'esperanto si è presentato a molte persone non bene adattate alla società come un luogo per trovare dei simili analogamente male adattati, presso i quali t rovano la consolazione e gli incitamenti necessari per rendere la vita piú sopportabile. Questo era ancora piú vero nel periodo dopo che le prime speranze di una rapida adozione dell'esperanto si erano mostrate vane, e prima delle argomentazioni in favore dell'esperanto fossero divenute forte e fattive a sufficienza, in altre parole tra la prima guerra mondiale e gli anni settanta/ottanta. Gran parte degli esperantisti in quel periodo era costituito da persone di acuta sensibilità verso alcune incongruenze della società in cui loro malgrado erano costretti a vivere.


Verso quelle persone inadattate alla società abbiamo un enorme debito di riconoscenza, perché senza di loro la lingua sarebbe semplicemente perita. È ingenuo e ingiusto guardarli dall'alto in basso, come fanno alcuni avvocati del Manifesto di Rauma. Nelle circostanze storiche in cui si trovavano, quegli alfieri della stella verde un po' settari sono stati indispensabili per lo sviluppo della lingua. Le persone normali non potevano interessarsi di esperanto, usarlo e tenerlo in vita. Se l'esperanto non fosse stato usato continuativamente, se nessuno avesse scritto opere in lingua, se non fosse stato utile nella corrispondenza, nei convegni, nei congressi costituiti principalmente da persone strane, non avrebbe sviluppato le sue potenzialità linguistiche e letterarie, non si sarebbe potuto arricchire, non avrebbe potuto portare un po' alla volta ad una analisi piú profonda del problema linguistico mondiale. Sono convinto che tra qualche secol o gli storici valuteranno che quegli uomini hanno fatto un enerme servizio all'umanità, tenendo in vita la lingua e facendola progredire, perfino se le loro motivazioni in parte poggiavano in una patologica psichica.


Oltre agli strani di cui ho or ora parlato l'esperanto ha sempre attirato persone con un personalità molto forte. Una persona dalla psiche perfettamente sana può iscriversi a un gruppo del tutto fuori dalla norma solo se lui o lei hanno una personalità forte al punto da porsi davanti alle masse e basare il suo punto di partenza su basi chiare, serie, comprovate, cosicché riesca a sentirsi nel giusto, sebbene senza inorgoglirsi. Per fortuna di uomini siffatti il mondo dell'esperanto ne ha trovati in una certa abbondanza fin dal principio. Uno di questi, per esempio, è stato Edmond Privat. Anche a loro dobbiamo grande riconoscenza, perché hanno aiutato molto il progredire della causa, mostrando a poco a poco, in ambienti diversi, che gli esperantisti non sono solo strani esseri fanatici.


E naturalmente, le due categorie presentano un'intersezione, vale a dire persone con piú tratti nevrotici rispetto alla media o piú profondi, ma anche con una personalità piú forte (spesso rafforzata proprio all'esercizio costante obbligatorio a vivere in un ambiente al quale non ci si sente conformi o pienamente adattati).


Un paradosso: dov'è la sanità mentale?


Siamo giunti di fronte a un paradosso: il mondo dell'esperanto è consistito a lungo di persone con una patologia psichica, eppure avevano una posizione mentale del tutto sana sulla comunicazione linguistica, mentre la società generale consisteva di uomini forse piú normali psichicamente, ma dall'atteggiamento del tutto nevrotico, patologico, oserei dire folle, riguardo a quel problema.


Cosa rende possibile fare un'affermazione cosí drastica? Be', il fatto che la società presenta tutti i sintomi di una psicopatologia nel suo modo di relarsi alla comunicazione linguistica. Quando un bisogno si fa sentire, cosa fa la persona normale? Agisce per soddisfare il bisogno con i mezzi piú efficaci, gradevoli e rapidi. Immaginate uno che ha fame. Ha in tasca il portafogli pieno. Si trova in un quartiere con molti posti di ristoro e ristoranti. Se è normale, andrà in uno di questi, per farsi servire un pasto o per comrpare qualcosa di commestibile che lo libererà dalla fame. Cosa pensereste di una persona che, anziché fare ciò, va alla stazione, compra un biglietto del treno da 300 chilometri e si mette a marciare e marciare per la campagna fino a raggiungere un piccolo ristorante che offre solo pasti sgradevoli? Cosa pensereste di un simile uomo, che, a causa del suo strano modo di relarsi al problema, soffre la fame per ore e alla fine riceve una cosa insoddisfacente, e tutto ciò è costato cento volte piú del necesssario? Chiunque diagnosticherebbe quel comporamente nevrotico, patologico. Perché agire in maniera cosí complicata, senza profitto per alcuno, mentre era possibile risolvere il problema della fame in maniera facile e diretta? Nel campo della comunicazione linguistica, gli esperantisti si comportano come il primo uomo, il resto del mondo come il secondo.


L'esistere di una resistenza conferma la diagnosi


Ma forse nonostante quanto detto continuate ad avere un dubbio su questo, se il comportamento attinente davvero è patologico, e avete bisogno di una conferma della diagnosi. Ora, sappiamo che una della caratteristiche di tali patologie è la resistenza. La persona che ha siffatti tratti patologici fa tutto il possibile per non prendere coscienza che non si sta comportando in maniera sana, che potrebbe agire in maniera del tutto diversa, molto piú piacevolmente ed efficacemente. A volte, tuttavia, la persona riconosce che quel comportarsi è anormale, ma dice: "Sí, lo so che comportarsi cosí è strano, anormale, perfino patologico, ma non posso fare altrimenti". Accettare quel comportamento anormale, accettare l'impossibilità di cambiarlo, è un atteggiamento che viene detto resistenza.


Be', è interessante vedere che la maniera in cui è organizzata la comunicazione linguistica nel nostro mondo ha tutti i caratteri del comportamento patologico. L'esperanto esiste. Permette di comunicare a costi molto meno alti dell'interpretazione simultanea, molto piuacute; secondo giustizia dell'inglese, molto piú comodamente di qualsiasi altra lingua, e tutto questo è possibile dopo un investimento molto piú piccolo per tempo, denaro ed energie spesi dai futuri fruitori e dallo Stato. In altre parole, è la via diretta per soddisfare il bisogno. Ma anziché usarlo, la società sceglie una via complicatissima e assai costosa.


Costringe milioni di bambini a studiare per anni e anni lingue straniere cosí difficili che solo uno su cento, in media, in Europa, uno su mille in Asia, è in grado di usare efficacemente alla fine degli studi. Dopo che è stata investita una tale quantità di pene, energia nervosa, tempo, denaro in quell'istruzione linguistica, diventa evidente che non si è risolto il problema dell'ineguaglianza, e che le barriere linguistiche sono state attaccate talmente invano che è necessario investire di nuovo milioni e milioni di dollari preparare traduzioni in decine di lingue e di mettere in piedi l'interpretazione simultanea senza la quale i fruitori non potrebbero capirsi. Ciò è folle. È folle usare il proprio tempo, il proprio denaro, il proprio penare cosí arrabbattato, in maniera cosí inefficace quando è possibile evitarlo. Basterebbe solo questo per diagnosticare la patologia nella società.


Ma quello che conferma che si tratta di un'autentica psicopatologia è il fatto che se lo ponete all'attenzione dei giornalisti, di chi decide, delle persone importanti, dei responsabili dell'organizzazione del vivere sociale, e provate a fargli vedere che il sistema è folle, e che esiste una maniera mentalmente sana per comunicare, allora avrete attivato una resistenza. Le persone rifiutano di considerare il vostro porre all'attenzione, rifiutano di fare un'inchiesta sulla faccenda, spazzano via le testimonianze e le prove, prima di entrare in conoscenza con esse. Quella parola, "prima", è importante perché è la prova che la diagnosi è giusta, dà ragione della resistenza. I responsabili della società preferiscono non sapere che esiste un'altra maniera per comunicare tra i popoli rispetto a quella che impongono a miliardi di abitanti della terra. Hanno paura di affrontare la verità. E poich& eacute; non vogliono vedere che hanno paura, il che è una prova ulteriore del carattere nevrotico, patologico del loro comportamento, usano pretesti di ogni dipo per non aprire il dossier.


Le persone importanti perciò rifiutano un qualcosa senza sapere cosa rifiutano; hanno paura senza sapere di averla; sono causa di disagi, ingiustizie, frustrazioni, sofferenze inutili, spese ingenti, tasse, complicazioni di ogni tipo, e una considerevole quantità di sofferenze (mi riferisco tra gli altri ai rifugiati per i quali la mancanza nella comunicazione linguistica è spesso causa di sofferenze concrete), causano tutto questo senza sapere che sono loro la causa. Si tratta di una psicopatologia sociale severa, grave. Ma davvero pochissime persone sono accorte e capiscono.


Tabú


Difatti, si tocca un tabú in tutto il campo della comunicazione tra popoli e tra Stati. Se studiate la letteratura che viene prodotta in questo campo, constaterete che oltre il 99 per cento i documenti presentano la questione come se l'esperanto non esistesse, come se l'umanità non avesse alcuna esperienza per comunicare internazionalmente alternativa ai mezzi consueti tradizionali, vale a dire l'interpretariato o l'uso di una lingua nazionale di prestigio come l'inglese. L'esperanto è tabú. Si è visto di nuovi recentemente a Bruxelles, al Parlamento Europeo, durante una sessione della cosiddetta Commissione Istituzionale che ha trattato la domanda riguardo alla (non)comunicazione nell'Unione Europea. Cosa prova che si tratta di una cosa tabú è proprio il rifiuto del confronto.


Nella scienza, quando si vuole sapere il valore di una cosa, si mette sempre a confronto rispetto a un referto. Per esempio, prima di decidere su un nuovo medicinale, si mette a confronto la sua efficacia con le sostanze già note. E quando si è deciso di fare questa o quella grande opera, per esempio costruire uno stadio nuovo, cosa si fa? Si lancia un appalto. Si chiede alle diverse imprese di sottoporre un progetto, e si mettono a confronto le diverse offerte per accettare la piú razionale in relazione ai costi e agli altri criteri che è necessario prendere in considerazione. Questa è la procedura normale. Infatti esiste un metodo totalmente scientifico per l'arte della scelta del miglior modo per raggiungere uno scopo definito in precedenza. Questo metodo si chiama "ricerca operativa" ("operations research", "recherche opérationnelle"). Nacque durante la seconda guerra mondiale come modalit&ag rave; di scelta della via migliore nel trasporto delle merci o degli uomini in maniera massimamente rapida e con il minimo rischio. Ora, se si applicano le regole della ricerca operativa al problema della lingua, si constaterà che tra tutti i rimedi osservabili nella pratica, l'ottimale per raggiungere lo scopo è l'esperanto. Ma per trovarlo è indispensabile mettere a confronto i diversi sistemi uno con l'altro, poi vedere obiettivamente, nella pratica (sul campo, come si dice adesso), come l'esperanto si sia di gran lunga il rimedio migliore al confronto di gesti e balbettìi in una lingua male appresa, all'uso dell'inglese, alla traduzione di documenti e all'interpretariato dei discorsi (simultaneo o conseguente), all'uso del latino, etc. Solo un confronto siffatto mette in grado di concludere qual è il sistema migliore.


Ma nonostante le migliaia e migliaia di pagine che si trovano nei documenti sulla situazione linguistica, all'Onu, all'Ue, nei dipartimenti linguistici delle Università etc., i documenti che affrontano il problema sulla base di un confronto che includa l'esperanto si contano sulle dita di una mano. Poiché la comparazione delle diverse soluzioni possibili al problema è qualcosa di cosí frequente in altri campi, la mancanza nel campo della comunicazione linguistica internazionale prova che entra in gioco un tabú.


In cosa si radica il tabú?


Perché si affronta in maniera patologica il problema della lingua? Di nuovo le ragioni sono molte. Ci sono ragioni politiche. L'idea che gli individui intellettualmente meno talentati possano comunicare senza barriere da popolo a popolo dispiace a molti Stati. Ci sono ragioni sociali. Quella stessa possibilità dispiace agli strati sociali privilegiati. Le persone che sanno abbastanza bene l'inglese o un'altra lingua importante hanno molti vantaggi sugli uomini che sanno solo alcune lingue locali e hanno tutto l'interesse a non perdere quel vantaggio. Questo è particolarmente evidente nel cosiddetto Terzo Mondo.


Eppure ritengo che le motivazioni principali del tabú siano psichologiche. Il nucleo del problema poggia sul peso emotivo, sul carico, sui connotati del concetto "lingua", nella sua capacità di far vibrare le fibre profonde del nostro animo. Noi pensiamo attraverso concetti o parole. E le parole o concetti non sono solo beni dell'intelletto, hanno un qualche sapore emotivo, una qualche connotato nei sentimenti. Non tutti, ma molti. Se vi dico "guerra", "denaro", "madre", "sesso" o "energia atomica", qualcosa vibra in voi, nel profondo, sebbene in generale non ne siate coscienti. In altre parole, noi non siamo indifferenti di fronte alla maggior parte dei nostri concetti, soprattutto a quelli che sono in qualche modo legati ai nostri desideri, bisogni, aspirazioni, piaceri, sofferenze, potere, etc.


Tra i concetti dal robusto connotato emotivo si trova anche il concetto "lingua". Perché? Perché la lingua evoca la capacità di farsi capire, e la possibilità di essere capiti è uno dei desideri basilari di ogni uomo. Quando ho un compito che in qualche modo mi tormenta, o una sofferenza, se posso parlarne a qualcuno che mi ascolterà e che reagirà comprensivamente mi sentirò aiutato, avrà luogo una qualche suddivisione dei compiti o della sofferenza e cosí non mi sentirò piú solo, mi sentirò meglio. Quando un bambino soffre e grida, molto spesso la reazione dell'adulto lí accanto non coglie nel segno, fraintende, oppure non viene alcuna reazione, salvo, sul viso, un'espressione di indifferenza. Ma quando il bimbo ha acquisito una lingua, e dice: "mi fa male l'orecchio", la reazione dell'adulto è totalmente diversa. Avviene una vera comunicazione, che ca mbia la vita. Dato che questa comunicazione nella maggior parte dei casi e con maggior salvamento si svolge con la madre, il connotato emotivo del concetto "lingua" include i sentimenti verso di lei. Per questo la maggior parte delle lingue dicono "lingua materna", mentre in effetti si tratta della lingua dei genitori o dell'ambiente.


Difatti acquisire una lingua è cosa del tutto banale. Accade secondo le vie normali di ogni tipo di apprendimento. Non c'è nulla di mistico nell'acquisizione linguistica, non piú di quanto ce ne sia nella capacità di guidare l'auto. Eppure c'è un'enorme differenza tra i due apprendimenti. L'età. Quando impariamo a usare l'auto sappiamo che impariamo e sappiamo molto sull'arte di imparare, perché andiamo a scuola da molti anni e abbiamo imparato molto sull'apprendimento. Ma quando apprendiamo la lingua dei genitori, non siamo per nulla coscienti che stiamo imparando. Perciò viviamo l'esperienza come miracolosa. Dapprima non eravamo in grado di comunicare con chiarezza. Ora possiamo esprimerci. Ecco il miracolo, che cambia tutta la nostra vita. A causa di quelle circostanze, in cui acquisiamo una lingua, imparando senza sapere che stiamo imparando, e si sta svolgendo un processo d'apprendimento del tutto banale, la lingua diventa un qualcosa di santo, favoloso, fiabesco, mitico. Qualcosa al di fuori del campo della razionalità. Qualcosa della cui provenienza non sappiamo nulla. Per le piú recondite profondità del nostro animo la lingua è un dono degli dei, un dono sovrannaturale. Nessun uomo può arrogarsi il diritto di c ambiarlo. Nessuno ha il diritto di mischiarsi a proprio piacimento, secondo ragione, in una cosa linguistica.


Guardate come reagiscono emotivamente gli uomini quando appare una proposta di cambiamento dell'ortografia. Guardate bene gli argomenti e vedrete che nulla di veramente razionale interviene in quei casi. Si tratta semplicemente di emozioni, le emozioni che fanno vibrare in eterno il concetto "lingua".


Un messaggio autoritario occulto


Quel sentimento primigenio sulla lingua come qualcosa di mitico, donato dagli dei, e perciò santo e intoccabile è il nucleo piú profondo dell'aura emotiva del concetto "lingua". Al quel nucleo bisogna aggiungere il fatto che il concetto "lingua" evoca le primissime relazioni familiari, principalmente quelle con la madre. Ma sopra quei due strati ce n'è un terzo: la relazione con l'autorità. Nella trasmissione di una lingua ai bambini c'è un messaggio nascosto che praticamente non viene esplicitato mai. E questo messaggio è terrificante e dittatorio.


Infatti questo strato detta la situazione del bimbo nei confronti dell'adulto nella società. Quando un bimbo non parla correttamente, lo si corregge, alemno a partire dalla frequentazione della scuola. Se non lo si corregge, si ride o si prende in giro, o si sorride significativamente. Qualsiasi sia la reazione, si fa sentire al piccolo che quando usa una forma di quel tipo, differente da quella giusta secondo la grammatica o il dizionario, è fuori dalla norma. Se un piccolo francofono dice "plus bon", gli si dice "Non si dice cosí, si dice "meilleur"". Forse anche in tedesco non si può dire "mehr gut" o "guter" o "gueter" e forse i bimbi usano forme di quel timpo. Allora li si corregge con frasi come: "Non cosí. Si dice "besser"".


Cosa significa ciò per il profondo della psiche? Ciò trasmette un messaggio occulto e cioè: "Non fidarti della tua tendenza spontanea, naturale che ti fa generalizzare i tratti linguistici di cui ti sei accorto. Non fidarti della tua logica. Non fidarti dei tuoi riflessi, del tuo istinto. Obbediscimi, anche se il nostro sistema è assolutamente irrazionale e stolto."


Per i bambini infatti la lingua è essenzialmente uno strumento per comunicare. Il primo gradino del loro pensiero perciò è: "Se mi capiscono, a posto. Una lingua infatti è fatta per capirsi.". Ma le reazioni dell'ambiente mandano e rimandano il messaggio: "Una lingua non è qualcosa di pensato e studiato per comprendersi. Una lingua è un campo in cui si impara a conformarsi a richieste arbitrarie e inspiegabili dei grandi." In una lingua ci sono dei tabú che nessono è in grado di spiegare. Se un bambino che vuole esprimere l'idea "è venuto" dice "er kommte", "il a venu", "he comed", li si fa notare che dovrebbe dire "er kam, il est venu, he came". Se in quel mentre chiede: perché? Non è possibile dargli una risposta razionale. L'unica risposta possibile è si dice cosí. E si sottintende che la lingua è governata da leggi incomprensibili, che si radicano nei primordi del tempo. Il rispetto agli antenati o agli dei che hanno donato la lingua è piú importante della logica, della razionalità, delle tendenze spontanee, istintive, rispetto alla natura umana individuale.


L'esperanto spazza via tutto ciò. È nato da non molto. Questo è un sacrilegio. Una lingua non ha il diritto di essere giovane. Una lingua è qualcosa di santo, donato dagli antenati o dagli dei, non una cosa che può formarsi nei nostri tempi. E si dice che quella lingua non ha eccezioni, è un crimine! Se si può seguire la propria natura, la propria logica per esprimersi, cosa resterà dell'autorità degli uomini antichi? Perciò l'esperanto suscita enormi timori nel profondo della nostra psiche. Rischia di far perdere alla nostra lingua materna e paterna il suo carattere mito, santo, fiabesco. La rende relativa, mentre è vigoroso il bisogno emotivo di sentire la lingua materna e paterna come qualcosa di assoluto. È necessario venga messo in campo qualsiasi rimedio per fermarne la diffusione. È necessario agire con ogni mezzo perché non si indaghi su di essa. Forse si vedrebbe che una lingua non è quello che crediamo, e che cosí verrebbero affossate le basi del vivere sociale. La faccenda è troppo emotiva perché possa essere accettata tranquillamente, perché siano studiate le sue reazioni con obiettività.


Un mostro


Inoltre, l'esperanto è come un mostro, perché si dice che l'ha creato un solo uomo. In altre parole, ha un padre ma non ha una madre. È la produzione mostruosa di un solitario pervertito. A quell'idea contribuiscono molte definizioni riscontrabili nei dizionari, nelle enciclopedie, nei libri sulle lingue o nei volantini esperantisti, secondo cui "l'esperanto è stato creato da Zamenhof nel 1887." L'esperanto non è stato creato nel 1887. Nel 1887 è apparso un seme di lingua, che molti anni prima era già cresciuto e si era trasformato nella mente di Zamenhof e sui suoi quaderni. Dopo quel lungo processo, che è comparabile al processo di crescita dal seme alla pianta, il progetto è divenuto pubblico, cioè il seme fu gettato. Ma quel seme poteva diventare vivo solo se il suolo l'avrebbe accettato. E quel suolo è la madre dell'esperanto, vale a dire la comunità dei primi idealisti dal gran de cuore che hanno accettato il seme e se ne sono presi cura, gli hanno donato l'ambiente in cui poteva crescere, trasformarsi e diventare qualcosa capace di vivere a sufficienza per tenersi in vita indipendentemente da qualsiasi individuo.


L'esperanto, come lo usiamo oggi, non è l'opera di Zamenhof, è una lingua che si è sviluppata solla base degli uomini piú diversi. È una lingua che si è sviluppata del tutto naturalmente, con l'uso, con la struttura, con l'alternanaza di proposte e controproposte, la maggior parte inconsce. Non è un mostro, che un uomo solo ha messo in piedi. S í, ha un padre, un padre da ammirare, un padre che è riuscito a mettervi dentro un potenziale di vita incredibilmente ben fatto, a puntino, che l'ha assistito amorevolmente, e che, molto piú di quanto un padre solo fosse in grado, gli ha donato la vita.


I fatti sono piú ostinati dei discorsi


Abbiamo visto che gli aspetti psicologici dell'esperanto e del problema linguistico mondiale sono molto piú complessi di quanto si potrebbe immaginare a prima vista. Nella psiche della maggior parte degli individui si trova una resistenza terrificante all'idea stessa di una lingua internazionale. Per questa resistenza, quasi nessuno dell'elite politica, sociale e intellettuale accetta serenamente di indagare sulla faccenda. E nonostante questo progredisce, va avanti. Casi analoghi di resistenza a qualcosa di piú buono, piú opportuno, piú democratico abbondano nella storia. L'esempio piú tipico in Europa è la resistenza contro le cifre che usiamo ora, le cifre indo-arabe: anche quelle l'elite intellettuale (e non solo quella) l'ha percepito come un sacrilegio contro le cifre romane usate fino ad allora. Sono convinto che un giorno l'esperanto verrà accettato in generale . La patologia non resterà in eterno piú fort e dei rimedi curativi, anche quelli agiscono nella società. Tra quelle forze curative ci sono la comprensione piú e pi´ buona del fenomeno esperanto da parte dei linguisti, per esempio, e di molte altre persone. Ci sono anche le richieste della realtà. Come disse Lincoln, si può nascondere la verità a una parte del pubblico per un po', ma non si può nascondere la verità a tutto il pubblico per sempre. L'esperanto, se lo si mette a confronto con tutti gli altri rimedi per comunicare tra popoli, è obiettivamente il migliore, di gran lunga, qualsiasi sia il criterio. I fatti sono piú ostinati delle idee. La resistenza andrà avanti a lungo e sarà aspra, sí, certo, perfino se ora viene percepito solo qualcosina mentre è già tutto pronto, cosicché, ora, molte persone semplicemente non ascoltano cosa andate dicendo sull'esperanto: la loro mente non è pronta, le vost re frasi passeranno oltre senza lasciare traccia. Sí, la resistenza sarà ancora forte. Ma, credetemi, non potrà essere superiore. I fatti vinceranno. La verità vincerà. L'esperanto vincerà.


Traduzione di Federico Gobbo